giovedì 17 maggio 2012

Pubblicità Buscopan: le donne? Furie mestruate da sedare con le pillole


Avete visto la pubblicità televisiva del Buscopan?

Una donna elegante ed autorevole, nel suo ufficio, "ringhia" ad un collaboratore che la disturba; lui si ritira in buon ordine. Poi, miracolo!: lei prende un Buscopan, e torna ad essere urbana e civile. A questo punto lui, guardando le altre 30 colleghe femmine che stanno per "ringhiare", controlla nel primo cassetto della scrivania e, scoprendo con sollievo di avere decine di scatole di Buscopan, si sente al sicuro: potrà somministrare Buscopan a tutte. Le quali, finalmente drogate, torneranno in possesso delle loro facoltà mentali e lavorative.
Ed ecco che una voce fuori campo sottolinea che il Buscopan fa passare i dolori mestruali.

Un costruttivo, salubre messaggio al mondo: le donne, avendo "spesso" le mestruazioni, non connettono, e va loro somministrato un farmaco riequilibrante.

A parte il fatto che, se ci fate caso, le pubblicità per i dolori articolari e dovuti all'attività e al movimento includono soprattutto MASCHI (manager in aereo, sportivi muscolosi, e giovanotti in ambiente neutro ma trendy), mentre ad avere mal di testa generici e da stress supposti psicologici sono le maestrine in classe e le mamme coi bambini, trovo ributtante questo stereotipo pre-illuminista delle donne soggette solo ed esclusivamente agli sbalzi ormonali. E' incredibile, che sia ancora ultilizzato.

Anche nelle soap operas all'eroina di turno varie volte è capitato - l'ho visto io, che le vedo di sfuggita in casa di conoscenti... quindi immagino quante altre volte me lo sarò persa.... - di dire all'antagonista donna "Ma trovati un fidanzato!", per sottolineare, schernendola, il fatto che la rivale non abbia un uomo che la "pacifichi". Freud e la sua "isteria" femminile permangono nel nostro vissuto: e se è vero che le donne hanno orologici biologici marcati e a visibili - e ci credo!, devono farli loro i figli - è anche vero che gli uomini hanno comunque caratteristiche comportamentali allo stesso modo capricciose, fuori luogo ed irruente, e che non sono tutti sempre costanti e senza sbalzi d'umore, essendo provato che gli sbalzi ormonali (produzione di testosterone e altri simpatici ormoncelli
correlati alla sessualità) vanno e vengono nel loro sangue con gli stessi o maggiori frequenze e picchi degli estrogeni e dei progesteroni.

Il messaggio dei pubblicitari è chiaro: assorbenti, depilazioni, capelli lisci, labbra glossate, taglia 42, creme anticellulite, pulizia dei pavimenti e del bagno, gioielli e maternità: l'universo in cui
confinare il consumo e l'auto-giustificazione della presenza femminile su questa terra.

Sì, anche la maternità: perchè gira la pubblicità che dice: "Il mestiere più difficile è il più bello è quello di mamma". Ma - piccolo particolare - essere mamma non è un "mestiere": è una pulsione vitale, una questione di vita o di morte, una ricchezza e una inclinazione, un richiamo. Certo, ci si può informare e formare e consapevolizzare per avere più strumenti e affinare le conoscenze: ma rimane il fatto che fare la mamma è una delle grandi missioni nel mondo dell'esistenza femminile, come lo è fare il papà, o l'amica, o il cittadino.

Un mestiere, invece, è qualcosa per cui ci si è preparati, si ha studiato, qualcosa che si sceglie e che può completare, oppure che ci occorre per mantenerci, e che accettiamo; è il medico, l'operaia, l'insegnante. Qualcosa che si può cambiare, e che rappresenta una parte del nostro compito d'autonomia, ma che non condiziona per sempre e completamente la nostra identità, e che di certo non la esaurisce.

Ma tant'è: la donna la si vuole comunque spesa nella sua casa, nelle sua pene mestruali e nei suoi shampoo coloranti. Tutto qua.

Donne, siate contente. La vita è facile: basta rimanere incinte - cosa che di solito riesce anche senza aver studiato o essersi impegnate più di tanto - dipingersi le unghie, pulire le piastrelle e sorridere.
E prendere qualche farmaco, per sedare altre pulsioni. Soprattutto, per non essere reattive e combattive.

Fuori dalla politica, dall'informazione, dall'arte, dalla comunità civile, grazie.

E non dimenticate di prendere il Buscopan.

(Alessandra Lazzari)



mercoledì 28 marzo 2012

Immigrate, basta con la commiserazione: alle donne auguro solo capacità di azione

Da molti anni frequento donne immigrate in Italia, sia nei programmi di alfabetizzazione o insegnamento della lingua italiana, sia in situazioni informali di feste e corsi di cucina o cucito, o nelle piazze, in occasione di mobilitazioni o eventi antirazzisti. Nel corso del tempo ho viaggiato in paesi soprattutto africani, in quelle nazioni tanto lontane dall’Italia per stili di vita, credenze, tradizioni e storia. Le ho ascoltate parlare, le donne, raccontare e ridere, sfogarsi e costruire pensieri. Per anni e anni ho seguito alcune vicende legate alle violenze da molte di loro subite; ho pianto delle loro morti, delle prevaricazioni esperite, del loro soffocamento in famiglia e nella comunità.
Ho visto associazioni accudirle, questure vessarle, ospedali respingerle. Ho sentito figli maltrattarle, mariti adorarle, amiche sostenerle. Le ho osservate cucinare, lamentarsi, sbagliare, esagerare, partorire, maledire, mediare, ripartire.
Dopo più di 20 anni di vita con loro, nelle loro case, e nella mia, non distinguo, nel mio cuore, la loro provenienza: se non quando leggo di “loro” nei giornali, o sento parlare di “loro” nelle conferenze e nei convegni; se non quando “loro”. Vengono a cercarle, a cercare “loro”, giovanissime e ben intenzionate laureande, per intervistarle e porre “loro” domande incomprensibili su temi di ordinaria monotonia: ginecologia, molestie, violenza, scolarità.
Poi: le distinguo quando si vota, perché “loro” non votano; quando c’è un concorso pubblico, perché i “loro” titoli di studio quasi mai vengon riconosciuti in Italia.
E mentre quando parliamo di storia, e la “loro” storia non è la mia, o di fiabe, o di musica, che non sono le stesse, con divertito interesse ci confrontiamo e ci raccontiamo, quando invece la differenza rende le donne immigrate deboli, irriconosciute, non-cittadine, carenti, non c’è progetto o incontro a tema o sussidio che addolcisca la pillola: le devo vedere con quegli occhi, le devo considerare in quel modo. Un branco di deboli questuanti incapaci, schiave di tradizioni incomprensibili e arretrate e soggette alla volontà altrui. Poverine, le donne immigrate. Non c’è niente da fare, sono diverse.
Così, le abbiamo rese. Da commiserare, e aiutare in ogni settore, perché non son capaci che di poco o nulla.

Ma io non ci sto più.

A questo punto, credo davvero che la mia amicizia e supporto per “loro” sia di trasmettere un poco di empowerment, di conoscenza dei mezzi possibili, di amore per la tenacia, di sicurezza e autostima, oltre che di valutazioni "diverse" dei comportamenti e delle catene imposte.
E’ il momento per me di dirlo: di dire che, per il bene loro – e mio - accoglierle come amiche non basta. Il mio Paese non mi consente la naturalezza. E allora devo darmi da fare per aprire loro possibilità e fare loro acquisire competenze diverse anche sui comportamenti possibili, che rompano con le credenze imposte. Occorre praticare un’altra opzione, agire una mentalità cambiata. Avere davanti obiettivi d'indipendenza, visioni di libertà vissuta.
L'atto migratorio, anche per me, quando "migro" nelle famiglie altre, ci apre la testa a rivelazioni e novità creative e divergenti rispetto ai nostri vissuti. Se un augurio posso fare alle donne, è quello di sapere che cosa buona e giusta è usare i mezzi legali ma anche inconsueti, forse, o comunque non convenzionali, per riavere indietro la loro capacità decisionale.
Per me, lo ripeto.
Credo debba anche passare il messaggio che possono comprendere; se una donna non capisce un termine, una ricetta, un referto, DEVE chiedere, approfondire, comprendere PERFETTAMENTE.
La “nostra” italica disponibilità c'è, almeno così dicono le centinaia di associazioni e gruppi femminili. Ma ora dovrebbe essere chiaro che non è funzionale rimanere dipendenti da un assistentato ad libitum di italiani, che, se pur ci sono, sono con loro anche per farle crescere, come donne e cittadine, come cresciamo tutti e sempre, come occorre fare nella vita. Per tutti.
Chiediamo aiuto, è sacrosanto: ma solo fino a quando sia strumentale all’autonomia, non alla dipendenza ad oltranza. Quando l'abbiamo, l’aiuto, valorizziamolo. Se no ci si rivolterà contro, diventerà un’abitudine che fa comodo ai politicanti e ai loro traffici.
Le donne ora dovrebbero avere l'obiettivo di muoversi sempre meglio e di comprendere sempre di più. Con la motivazione di se stesse e dell’amore per il mondo, e non solo dei loro figli, altro stereotipo comodo al sistema che le confina tra le mura domestiche.
Donne, amiche, uscite dagli spazi dei consultori e dei corsi di italiano: usate i vostri occhi splendidi e nuovi per creare splendide e nuove cose.

Alessandra Lazzari



venerdì 23 marzo 2012

Malata di Aids nel Cie di Bologna: invece di aiuto arriva il rimpatrio

Questa è la storia di una giovane che a febbraio è stata rinchiusa nel Centro di identificazione ed espulsione di Bologna perché senza documenti e che, a pochi giorni dalla festa della donna, è stata prelevata e rispedita nel suo paese, la Nigeria, perché malata di Aids.
In barba ad ogni dichiarazione dei diritti umani, e in un paese che ama definirsi civile, succede ancora che chi ha bisogno di aiuto venga abbandonato e rimpatriato a dispetto di alternative alla legge Bossi-Fini come potrebbe essere, per esempio, la concessione di un permesso di soggiorno di protezione sociale.
A denunciare la vicenda era stata, neanche a dirlo, una donna. E cioè la deputata bolognese del Partito democratico, Sandra Zampa, che aveva visitato la struttura bolognese e toccato con mano le condizioni di «promiscuità», così le aveva definite, in cui vivono gli ospiti di queste strutture. «La situazione è allucinante – aveva informato allarmata la parlamentare –. Questa ragazza, che, come le coetanee che sono rinchiuse al Cie, sembra molto più vecchia di quel che è, è parecchio malconcia. Avrà a malapena trent’anni. All’Aids, che è conclamato e di cui gli operatori si sono accorti solo dopo il suo arrivo nell’edificio, si aggiungono altre patologie che la rendono estremamente sofferente. Ha il terrore di essere rispedita in Nigeria dove, date le sue precarie condizioni, sarebbe di fatto mandata a morire». Per questa giovane donna nigeriana - che le poche testate giornalistiche che hanno riportato la sua storia hanno ribattezzato Gloria - non c'è però stato lo stesso tam tam mediatico che si era scatenato per il caso di Adama, la ragazza senegalese che solo qualche mese prima era stata rinchiusa sempre nel Cie di Bologna dopo aver denunciato gli abusi subiti dal suo compagno e trovata, anch’essa, senza permesso di soggiorno. Mentre Adama - grazie alla mobilitazione di alcune associazioni femminili e ad un appello corredato da più di 800 firme - aveva ottenuto un permesso di protezione sociale ed era stata “liberata” e affidata alla Casa delle donne per non subire violenza; di Gloria si sono perse le tracce. Come accade, del resto, a tutti quei migranti, che il nostro paese considera clandestini perché "sans papier", che vengono rimpatriati applicando pedissequamente la legge dello Stato.
Eppure quando la polizia era andata a prelevare Gloria gli operatori del Cie credevano che l’interessamento della parlamentare democratica, seppur solitario, avesse sortito buoni frutti e che la giovane sarebbe stata presa in carico da una struttura o da un'associazione umanitaria in grado di aiutarla. Ma così non è stato. Al contrario, Gloria è stata accompagnata  all'aeroporto, imbarcata per Fiumicino e poi per Lagos dove è stata consegnata alle autorità locali.
Ora non è dato sapere dove sia e, soprattutto, se sta bene e se riceve le cure di cui necessita. È accaduto, insomma, quanto la portavoce della rete Primo Marzo e responsabile del Pd Emilia-Romagna per l’immigrazione, Cécile Kyenge Kashetu, aveva profeticamente previsto. Ma nessuno le aveva dato ascolto. «La semplice uscita dal Cie non basta. Per aiutare davvero queste persone - aveva sottolineato - bisogna costruire una vera politica dell’accoglienza».


Pubblicato su giulia.globalist.it

(Alessandra Testa)

giovedì 1 marzo 2012

Il primo marzo sotto le Due Torri

Galleria di Dante Farricella
 



Non c'è la folla del 2010, quando i migranti scelsero Bologna per la prima giornata "senza di noi", ma lo sguardo è decisamente sul futuro. Anche se non c'è il giallo (simbolo del cambiamento) con cui la rete Primo Marzo aveva invitato i partecipanti a scendere in piazza, mancano i lavoratori e l'organizzazione è risultata piuttosto "anarchica" rispetto alle aspettattive, sono i ragazzi delle scuole superiori a far sperare nel fatto che non ci sono legge Bossi-Fini e respingimenti che possano cambiare la realtà: la società meticcia che i più giovani sognano è già iniziata.

Erano 250, massimo 300 gli studenti medi che in mattinata hanno dato il via al terzo sciopero degli stranieri. Frequentano gli istituti cittadini. Le Aldini, il Fioravanti, il Serpieri, le Rosa Luxemburg, il liceo Sabin e il polo artistico. Bolognesi, rumeni, marocchini, senegalesi, pachistani, sfilano fianco a fianco e ballano al ritmo della musica hip hop. Sotto l’occhio attento delle forze dell’ordine, portano in corteo il loro slogan scritto con lettere colorate: “Contro ogni razzismo, per una società meticcia”. Come lo sono già le loro classi, formate al 50% da italiani e al 50% da stranieri
«perché così ci considerano, anche se siamo nati in Italia», come fotografa alla perfezione Eduard, origini romene e appena 14 anni.

Poi c’è  Zakaria Zrari, che dà la carica ai compagni dal megafono. Zakaria ha 17 anni ed è venuto sotto le Due Torri dall’Alsazia Lorena, in Francia, solo per manifestare
. «Sono arrivato a Bologna quando avevo 8 mesi e ci ho vissuto fino all’anno scorso. Dopo 15 anni, mio padre ha ottenuto la cittadinanza e con lui anche io – spiega – Ora sono in Francia perché papà ha perso il lavoro e ha scelto di trasferirsi. Ma mi sento italiano ed è qui che ho tutti i miei amici, che almeno oggi ho voluto rincontrare. Appena compio 18 anni girerò tutto il mondo, perché del mondo intero mi sento figlio»
Non ne sono consapevoli, ma sono già più avanti del paese in cui abitano, delle leggi, della Bossi-Fini contro cui urlano a squarciagola che
«allora siamo tutti clandestini». Bianchi, neri e gialli.

La rabbia, il doversi sempre sentire di troppo, l'energia.
La loro storia la raccontano con parole semplici. Con un italiano sicuro, che va subito al punto.
In piazza de l’Unità, da dove prende le mosse una giornata che si concluderà  solo in serata in piazza Maggiore, chiedono
«cittadinanza subito, perché se andiamo nella stessa scuola e parliamo la stessa lingua siamo tutti uguali».

Qui in Italia i figli dei migranti li chiamano di seconda generazione. 
Una definizione che non gradiscono. 
Mohamed Fnino, per tutti “Mummo”
, ha 16 anni ed è iscritto all’istituto professionale Aldini:
«I miei genitori sono del Marocco, ma io sono nato qua, mi sento italiano – dice, con un accento quasi emiliano – Eppure la legge Bossi-Fini mi tratta da ospite. Se non avrò 18 anni di residenza continua in Italia non mi daranno la cittadinanza e mi espelleranno. Se invece sarò più fortunato e potrò restare e continuare gli studi – prosegue – dovrò fare un permesso di soggiorno per motivi di studio e garantire un tot ore di lavoro, che però non mi  consentiranno nemmeno di pagare i libri dell’Università». “Mummo” fa anche parte di un gruppo musicale – le “Anime confuse” – e con la sua musica hip hop in serata si è esibito in piazza Maggiore. Nome del disco che la band si è autoprodotta: “On the move, generazione in movimento”.

«Vogliamo la cittadinanza per i nostri figli senza condizioni – gli fa eco Sené Bazir, senegalese da 20 anni a Bologna e voce storica del Coordinamento migranti di Bologna – Devono poter vivere a pieno la loro vita. Li chiamano di seconda generazione. Ma non sono secondi a nessuno». Proprio come gli altri studenti bolognesi che sfilano insieme a loro e con cui in aula siedono vicini, gomito a gomito. «Avere la cittadinanza secondo lo Ius soli dovrebbe significare che sei cittadino se sei nato qui – fa notare – non solo se rispondi a certi requisiti come si propone da più parti. Uno fra tutti: che i tuoi genitori siano regolari». Bazir fa l’operaio, ma i suoi contratti sono tutti precari. «Questo è il nostro giorno della negazione – spiega – Siamo qui per chiedere il ritiro di ogni tassa sul permesso di soggiorno. Troviamo incivile, ingiusto e indegno dover pagare 200 euro, come stabilito dal governo Berlusconi, per ogni rinnovo». «E troviamo vergognoso che l’Italia sia l’unico paese in cui sei straniero anche se nasci qui», chiosa poi.

Viene dal Senegal anche Babacar Ndiaye.
«Ho 48 anni e sono qui da 22 – racconta – Ho fatto mille lavori, alla Coop, in fabbrica, ma ora sono disoccupato. Ho un figlio di 14 anni che vive con me, mentre mia moglie è rimasta in Africa. Il nostro – ci tiene a rimarcare – non è uno sciopero etnico. Paghiamo la crisi proprio come gli altri lavoratori e siamo qui tutti insieme, bianchi, neri e gialli, per chiedere la stessa cosa: dire no allo sfruttamento e alla precarietà perché considerare i problemi dei migranti come una questione separata rende solamente tutti più deboli e raddoppia il razzismo istituzionale, che non è quello della Lega Nord, ma quello della burocrazia».

In marcia con gli studenti c'erano alcune giovani donne, anche se quelle che svolgono i lavori di cura (le cosiddette badanti) non ci saranno nemmeno nel pomeriggio: sono rinchiuse in casa dove, chi c’è, spera abbiano raccolto almeno l’invito ad indossare un indumento giallo in segno di adesione. Non c’è nemmeno Cécile Kyenge, la fondatrice del primo marzo degli stranieri e oggi referente nazionale della rete. Quest’anno Kyenge ha preferito essere a Vittoria in Sicilia. L'abbiamo, però, raggiunta al telefono.
«La Sicilia è la porta d’Europa: è qui, soprattutto a Lampedusa, che arrivano i tanti che scappano dalla Tunisia in cerca di una vita migliore». Kyenge ha 48 anni e vive a Castelfranco Emilia, in provincia di Modena, dal 1983. «Originaria della Repubblica del Congo sono venuta qui da sola perché l’Italia era l’unico posto dove mi era permesso di andare all’Università. Se fossi dovuta andare in Giappone, sarei andata lì per laurearmi». Ora è un medico ed esercita a Modena. «Ho lavorato giorno e notte per realizzare il mio sogno e oggi che faccio il medico per vivere ne ho un altro: dare ai migranti che hanno scelto questo paese il benessere che cercano».

Tra le donne dell’associazione Migranda, nata l’anno scorso proprio in occasione del primo marzo e che aveva portato in corteo delle sagome di legno per rappresentare
«le tante badanti chiuse in casa a lavorare», anche Milena Trajkouska. Viene dalla Macedonia e frequenta la specialistica alla facoltà di Giurisprudenza. Anche grazie alla sua mobilitazione, Adama Kebe, che era stata rinchiusa nel Cie di Bologna perché senza documenti dopo aver denunciato di essere stata violentata dal suo compagno, ha potuto iniziare una nuova vita. Milena non vuole parlare di sé, vuole dare voce a chi non c’è:  «Le donne sono discriminate due volte e sottoposte ad un doppio ricatto: la trafila per l’ottenimento dei documenti e le violenze che spesso subiscono in famiglia e in strada».

L’iniziativa, a cui ha aderito fra le tante sigle la Cgil che ha allestito un piccolo presidio in piazza Re Enzo, chiede anche la chiusura dei Cie.  All’appello “LasciateCIEntrare” che ha portato i giornalisti di nuovo all’interno dei centri di identificazione ed espulsione, il Coordinamento migranti affianca lo slogan “Lasciateci uscire”.
«Per noi non ci devono essere nemmeno i finanziamenti per i Cie – sottolinea una delle anime della Move Parade, Giorgio Grappi – i Cie vanno chiusi. No pure al permesso di soggiorno a punti che distingue fra immigrati qualificati (quelli che superano il test di italiano, conoscono la Costituzione e hanno un lavoro…, ndr) e immigrati clandestini da rinchiudere nei lager».

La giornata, prima di lasciar spazio al concerto hip hop - quello di “Mummo” - si è chiusa con il megafono aperto a pochi passi dalla fontana del Nettuno e nella stessa città, dove in serata si svolgeva un incontro fra il leader bolognese della Lega Nord Manes Bernardini e l’ex ministro dell’interno Roberto Maroni.
«Non siamo interessati a inseguire – commenta Sené Bazir – i fantasmi che non sono più al governo» ma a raccontare la nostra storia. Avventure tutte diverse, cominciate lontano, ma con una sola comune speranza a dispetto dei clichés che promuovono l’equazione “immigrazione uguale criminalità”: una vita migliore e, soprattutto, pari dignità in una città che hanno imparato ad amare e che sentono, nonostante tutto, ogni giorno un po’ più “casa”.


(Alessandra Testa)

domenica 12 febbraio 2012

Libere di Essere, Libere di Vivere

L'adolescenza porta con sé momenti difficili, di crescita, apprendimento, presa di decisioni, devi cominciare a pensare al futuro, ci sono però ragazze alle quali questo diritto viene negato, si ritrovano in circostanze dove le tradizioni delle loro famiglie e la loro cultura d'origine impone loro un altro destino, apparentemente sono come tutte le coetanee, frequentano la scuola, vestono i jeans, ma quando attraversano la soglia della porta di casa è tutta un'altra storia, per alcune la adolescenza implica essere pronte per il matrimonio, senza avere la possibilità di dire cosa ne pensano e se sono o meno d'accordo.

Affrontare un matrimonio senza potere scegliere con chi vuoi condividere la tua vita è una violenza, solo che molte delle ragazze che si trovano in questa situazione crescono pensando che vada bene così, da piccole è stato detto loro che è quello il loro futuro, che fa parte della vita di una donna, che cosi hanno fatto le loro mamme, le zie e le nonne, ma quando vedono come vivono le altre ragazze occidentali è uno shock culturale, quando si abituano a sentire parlare di egualianza tra uomini e donne fuori di casa e a scuola sentono parlare di diritti capiscono di poter vivere una vita diversa dove è possibile fare delle scelte; è uno scontro di valori, di culture.

Quando si parla di violenza di genere dobbiamo parlare delle ragazze che non tornano più a scuola dopo le vacanze estive perché rimandate a casa nei loro paesi d'origine per doversi sposare per forza, non per amore. Vedono sbriciolarsi i loro sogni senza protestare, alcune di loro si dichiarano contrarie a queste arbitrarietà, ma sono maltrattate dai fratelli e dai padri, qualcuna trova il coraggio di chiedere aiuto e riesce ad andare nei centri antiviolenza o in case protette, lontano da queste situazione di oppressione, ma altre com'è il caso di Sanaa, diciotto anni, figlia di immigrati marocchini, finiscono uccise dal padre. La sua unica colpa era volere essere libera di decidere come vivere la propria vita. Queste ragazze sanno cosa le aspetta se vanno contro corrente, quella è una delle cose che più colpisce, che una ragazza sappia che se non segue le usanze della sua famiglia possa andare incontro alla morte e comunque ci provi con tutte le sue forze.

Vengono punite per aver infranto l'onore della loro famiglia, ma di che onore parliamo in una cultura che continua a vedere le donne come oggetti? Abbiamo delle leggi che devono essere modificate per salvaguardare queste ragazze e dar loro la possibilità di vivere come persone, essere trattate come individui che capiscono che possono essere aiutate, che il fatto di vivere in una società "civile" dà la opportunità di avere un domani. C'è un Codice Universale dei Diritti Umani per tutelare anche le persone più vulnerabili, in questo caso le donne e il fatto che l'Italia aderisca a diverse convenzioni e patti internazionali la impegna a garantire la protezione di queste donne  come in una società dove si combate contro l'emarginazione femminile.

Viviamo in una società multiculturale, ma quando le tradizioni di determinate culture mettono a rischio l'equilibrio della nostra, andando in contro alle libertà individuali, è necessario ricordare quanti passi avanti abbiamo fatto nelle ultime decadi per l'emancipazione delle donne e dei loro diritti.


(Jhoana Ostos Tavera)